Quadro di Franco Bruna |
Tutti attendono Pasqua come la prima vera piccola vacanza dopo le feste natalizie. Sembra che si debba fare chissà cosa, ma in fondo c'è un solo giorno in più rispetto al normale fine settimana, a meno che non si attacchino altri giorni di ferie, ma questo non tutti possono farlo. Così, la domanda ricorrente già un mese prima è “cosa fai per Pasqua?”. Non è che in due giorni e mezzo/tre si possa fare granché. Stranamente, però, nei discorsi che la gente si fa il tempo sembrerebbe dilatarsi, o – almeno – così piacerebbe che fosse.
Da piccoli si andava a fare il sacro picnic con i genitori e i parenti. A Pasquetta si caricavano le macchine e si partiva, di solito per andare non tanto lontano dalla città. Era difficilissimo riuscire a trovare un posto che non fosse già intasato di gente, perché noi si arrivava sempre dopo, in ritardo. E così toccava accontentarsi di un fazzoletto di terreno, di solito mai pianeggiante, con tutti che si lamentavano per qualcosa. Poi, al termine di una giornata che sembrava lunghissima, ci si metteva in macchina e, per chi come noi tornava a Torino, un altro lunghissimo viaggio di ore, perlopiù fermi in coda.
Il lunedì di Pasquetta è stato anche l'occasione per le prime gite fuori porta da liceali, quando ci si emancipava appena dai genitori. Non facilissima era l'organizzazione per gli spostamenti, visto che nessuno aveva la patente, ma in qualche modo ci si arrangiava. Vuoi con i mezzi pubblici, vuoi con l'aiuto di qualche genitore che si caricava 4-5 ragazzini per volta e che trasportava fino alla casetta di campagna, dove solitamente ci si rintanava perché pioveva sempre e faceva un freddo cane.
Il mio ricordo va proprio ad un giorno uggioso di quelli. 16-17 anni, chiusi in una cucina umida con il putagè acceso. E Another One Bites the Dust dei Queen suonato da una musicassetta casalinga a tutto volume.